Coober Pedy

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Ci sente parlare e si avvicina. Ha gli occhi acquosi, lo sguardo ceruleo, riesce ad essere pettinato e spettinato al tempo stesso, con il segno della notte sul dietro della sua testa. Indossa una tuta bianca, pulita ma macchiata, forse qualcuno si occupa di lui, probabilmente una moglie sua coetanea, con poca vista negli occhi, forse è lui stesso a lavare i propri indumenti, senza vedere le macchie. Ha voglia di parlare con noi, ma senza entusiasmo, non ha alcuna traccia di sorpresa nella voce. “Abruzzese, sono abruzzese”, ci confida, “Abbiamo scavato tanto, si scavava come dei matti!” Cober Pedy è un posto incredibile, i giacimenti di opale hanno fatto diventare questa terra che giace nel cuore secco dell’Australia un cumulo di macerie: si scava, creando pozzi nella roccia sotterranea, i detriti, una volta estratti, vengono passati al setaccio, alla ricerca di una qualche bella pietra che possa finalmente fare arricchire. Oggi restano per chilometri e chilometri quadri i cumuli di materiale sciolto, tanto da tramutare lo skyline, dal morbido deserto che era, in quello di un’enorme discarica. Le stanze sotterranee hanno trovato oggi una nuova dignità, sono state trasformate in luoghi di ritrovo, stanze di alberghi, dove si vive benissimo, in penombra, protetti dal caldo che, inesorabile, perseguita chiunque si avventuri all’esterno. Dormirò nel fondo di una galleria, con al fianco del mio letto una parete di roccia, tagliata ben diritta, con ancora i segni del macchinario che l’ha frantumata, asciutta, senza muffe, con i pozzi di ventilazione, semplici tubi di alluminio con cappuccio che sporgono arditi per parecchi metri dal terreno, che non fanno mancare l’aria, con grande sorpresa del mio respiro asmatico.

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I camini di ventilazione visti dall’esterno

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I camini di ventilazione visti dall’interno

La roccia mi parla, ma non capisco la sua lingua, se solo mio fratello, geologo, fosse qui, potrebbe raccontarmi la storia millenaria di quegli strati, di come si è formata quell’unica striscia bianca, di quando. Passare dalla forte luce bianca circondata di caldo soffocante come un enorme asciugacapelli dell’esterno, da quel panorama sconsolato fatto di pietre e ferraglia all’oscurità dell’interno impressiona, anche perché questo passaggio non viene accompagnato dal fresco come nelle nostre grotte, ci si libera solo dalla persecuzione di quell’aria calda ed estremamente secca. Un largo corridoio in discesa ci accompagna, ai suoi lati le nicchie, oggi stanze, scavate con tanta fatica. Non a mano, credo, con l’aiuto delle grandi pale meccaniche, quei mostri potenti d’acciaio che si incontrano arrugginiti in superficie. “Meccanico, ero meccanico” racconta il nuovo amico, certo avrà preferito scegliere una strada forse più sicura per guadagnarsi il pane, sempre che gli scavatori riuscissero ad avere fortuna e pagare i suoi interventi.

Penso alle vite faticose, alle speranze forse mai raggiunte, un’altra immagine mi viene alla mente: “Ho visto i piedi quando è passato adagiato su un carretto, un incidente, un crollo improvviso, tutto il paese mormorava che era morto un italiano…” Quell’italiano era il marito di Carmela, abruzzesi anch’essi, partiti dal paese sassoso in cerca di una vita migliore. La giovane moglie non si era arresa di fronte alla disgrazia, con la tenacia tipica della sua terra era rimasta, senza accogliere l’offerta del padre, fotografo, un artista per l’epoca, che la avrebbe volentieri ripresa in famiglia, per crescere quella bambina che portava in grembo, senza saperlo, già al momento dell’incidente. Carmela è una che ce l’ha fatta, pulendo e lustrando, non cucinando come molti immaginavano, cucinare no, non le era mai piaciuto, nonostante fosse italiana, ma la pulizia, quella si che era il suo forte. 

Senza spendere un soldo, alloggiata e nutrita, aveva servito uno dopo l’altro i direttori di quella banca, che le avevano anche concesso dei prestiti, crescendo la sua bambina con semplicità, senza farle mancare nulla, riuscendo a comperare una casa, oggi affittata, per non avere ristrettezze in vecchiaia, anche se lei, donna semplice e parsimoniosa, si conta persino i sorsi dell’acqua che beve, per obbedire al dottore, dieci sorsate, non una di più, non una di meno. Carmela, non so se ti rivedrò, ma il tuo sguardo da animale ferito mi ha trapassato il cuore. Non sapevo, non potevo immaginare che nel giro di soli due anni avresti perso il contatto con questo mondo, tu che uscivi all’alba ed al tramonto per camminare con tanto di scarpe da ginnastica, e ti si vedeva passare su e giù per le salite del centro di Noumea, e qualche volta ti ho anche accompagnata! Non perché tu non mi abbia riconosciuta, il tuo sguardo mi ha colpita, quello sguardo di animale in difficoltà, che non sa bene come fare per uscire dalla trappola in cui si trova, ecco, quello mi ha molto toccata, quell’angoscia profonda che usciva dai tuoi occhi. Come mia nonna sei sempre stata apprensiva e pessimista, temendo di essere travolta da qualche altra disgrazia, ora il senno ti sta lasciando per non farti capire la fine che inevitabile, ti si sta preparando. Fino a due anni fa le tue carni erano fresche, ora pendono stanche, non hai più muscoli, stai perdendo forze. La tua casa no, sempre perfetta, con quelle tende gialle di un tessuto speciale cucite da te stessa, che proteggono i tuoi occhi dall’eccessiva luminosità del giorno, colorando allegramente il tuo piccolo appartamento.

Carmela, non so se ti rivedrò, ma mi ricorderò per sempre di te!

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La prima chiesa di Coober Pedy

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